Mi è capitato per le mani un libro che la casa editrice L’Ippocampo mi ha inviato da leggere e recensire e che, a dispetto della sua natura giocosa e maliziosa, mi ha fatto molto riflettere. Si tratta di Club Godo. Una cartografia del piacere, scritto e illustrato dall’artista Jüne Plã, fortunatissima influencer marsigliese che con il suo profilo Instagram Jouissance Club ha raggiunto quasi un milione di followers. Cos’è allora Club Godo, ma soprattutto cos’è questa jouissance?
Come spesso succede quando i francesi si mettono d’impegno e potrebbero anche vendere neve agli eschimesi, jouissance è un termine ombrello che si può tradurre con “godimento”, ma anche “divertimento”, “piacere”, “soddisfazione”, “benessere” e “orgasmo” in senso più stretto. Il libro, che si propone come una sorta di manuale d’educazione sessuale ma anche come vademecum pratico per divertirsi in coppia (o da soli, o in tre, in dieci, quello che vi pare), si concentra sì sul godimento fisico, ma solleva una questione che, secondo me, è ben più attuale: l’importanza della comunicazione e del piacere consapevole.
Quando quest’ultimo si riferisce a esponenti di sesso femminile, però, le cose si complicano un po’: in una società che associa il bell’aspetto alla stupidità o alla frivolezza, soprattutto se si è bionde (non si offenda nessuno per la provocazione), la libertà sessuale viene tacciata come ulteriore tacchetta di demerito nella morale di una donna. Già, la morale.
Da secoli l’integrità dell’animo di una donna viene misurata in base a quanto sia pura e casta, senza spiegare in che modo lo spirito e la carne siano tecnicamente compromessi dalla perfezione dell’imene. Penso al divieto di fornicare, ovvero di consumare un rapporto sessuale prima del matrimonio, al disastro che piombava sul capo dell’intera famiglia in caso di “insubordinazione”, soprattutto nei tempi passati (e, in alcune culture, anche oggi) perché la verginità veniva considerata come una sorta di lucchetto, di garanzia sulla paternità, e dunque mantenersi intatte diventava un valore sociale. Un valore come essere onesti, gentili, competenti, ricchi persino. E se le remore maggiori venivano indirizzate sull’illibatezza, nessuno parlava mai di piacere femminile.
Si potrebbe dire che le due cose siano legate a doppio filo: una donna composta non poteva abbandonarsi alle gioie della carne (e quando arrivava il momento, il suo unico dovere era cercare di procreare) e di conseguenza queste erano solo appannaggio delle donnacce e delle prostitute.
La libertà sessuale femminile, o quantomeno la sua espressione, allora ha generato una sorta di sottile timore che associava il godimento alla malafemmina, a prescindere da quanto l’uomo si impegnasse per reprimerla: la donna può fare sesso nonostante il suo stato d’eccitazione, può idealmente scegliere il padre dei suoi futuri figli, può proseguire nell’atto anche dopo aver goduto e questo potere di scelta, questo potere fisiologico, era una minaccia, sia per le pretese biologiche del padre sia per le conseguenze sociali che ne derivavano. Una donna consapevole era, di fatto, una donna che non aveva paura, che poteva ribellarsi. L’equivoco allora nasce così?
Tutt’oggi una donna che si dimostra “vivace” viene mal vista. Quante volte siamo caduti nella trappola del libertina uguale poco di buono? Potremmo stare qui a disquisire per ore e ore sulle differenze che intercorrono tra la condotta maschile dipinta come segno di forza e di intraprendenza e quella femminile che inevitabilmente le pone sul capo una lettera scarlatta grande quanto un grattacielo. Il libertinaggio, che oggi ha un’accezione negativa ma solo se riferito alla donna, prende in prestito dal passato quell’assunto secondo cui la femmina debba dimostrarsi quasi genofobica (ovvero avere paura di fare sesso) per suscitare rispetto, perché una donna inibita è una donna fedele. E allora ecco qui l’immediata dicotomia donna libera sessualmente uguale donna infedele.
Chiaramente dal macrocosmo del pensiero sociale questo equivoco si trasferisce anche nel microcosmo della coppia, e il libro di Jüne Plã lo spiega bene: siamo arrivati a pensare che l’apice di un rapporto sessuale sia il raggiungimento dell’orgasmo, e se questo è vero per l’uomo, per la donna le cose sono un po’ più difficili. Ne avete mai sentito una dire: «Sì, mi piace scopare» oppure «Per farmi venire devi fare questo o quello»?
Una donna che sa quello che vuole viene immediatamente associata a una persona di una “certa esperienza”, una persona che ha provato vari partner, che ha fatto sesso molte volte, che non si accontenta di subire passivamente la penetrazione, e quindi nel momento in cui si permette di esprimere le sue preferenze viene bollata come infedele, prostituta, inaffidabile. Allora la domanda che mi sono posta leggendo il volume è: è per questo che una donna che ama fare sesso e lo dimostra dà così tanto fastidio? È l’esplicitazione del suo piacere in termini pratici che causa il cortocircuito?
Riporto quindi una mia diretta esperienza che un po’ fa sorridere, ma anche riflettere: qualche settimana fa ho mostrato su Instagram delle storie in cui recensivo un bellissimo volume di Milo Manara dal titolo Kamasutra. I feedback che ho ricevuto sono stati i più disparati, con una sostanziale macro distinzione tra risposte maschili e risposte femminili: le ultime si sono mostrate interessate, curiose, anche maliziose, mentre le prime si sono divise tra (e qui esagero, perché ho ricevuto anche commenti intelligenti) indignazione e fraintendimento. Una donna che parla di sesso, in questo caso di disegni artistici che mostrano la nudità, è una donna che ha l’ormone a mille, che ammicca per lasciar sottintendere una natura perversa, una poco di buono. Il desiderio o l’interesse verso il mondo del sesso si connota automaticamente in modo negativo se esplicitato da un’esponente di sesso femminile.
C’è di fondo un bigottismo imperante che ancora nega che ci sia bisogno di parlare di godimento della donna: tutti facciamo sesso, a tutti (o quasi) piace fare sesso (perché non ci dimentichiamo che esistono anche persone asessuali) e però no, non bisogna dirlo, non bisogna sdoganare ciò che deve rimanere relegato nella sfera privata. Il fatto è che si confonde tremendamente l’informazione necessaria con lo spiattellamento dei fatti propri, e quando questa libertà viene posseduta da una donna diventa colpa.
Una femmina – e uso di proposito questo termine – che si appropria del proprio corpo e del proprio piacere non va bene, fa vacillare la convinzione secondo cui debba essere sottomessa ed esitante mentre aspetta il maschio di turno che la faccia godere. Vi faccio uno spoiler: quasi il 70% delle donne finge l’orgasmo e questa farsa non è deleteria solo per lei, ma anche per il proprio/a compagno/a. Forse è da questo equivoco che nasce il timore della donna consapevole? Perché non ha più bisogno di persone “altre” per raggiungere il climax? E non sto parlando di masturbazione, ma di rapporto binario che fa cadere necessariamente un elemento fondamentale, ovvero l’indispensabilità dell’uomo nel raggiungimento del piacere femminile.
Attenzione però: non sto qui dicendo che l’uomo sia inutile, quello che voglio sottolineare è che una donna che prende in mano le redini della situazione, che spiega cosa le piace, cosa non le piace, che guida in tutti i sensi il suo/la sua partner nella scoperta di ciò che la fa stare bene, viene vista come una detrattrice, perché agli occhi della società priva l’altra persona di un certo potere, di quell’orgogliosa presunzione di dire «Sono stato io», «Sono un grande, ho trovato da solo il punto G».
Il fulcro di tutto è l’ignoranza, non nel senso di essere arretrati o poco svegli, ma di ignorare letteralmente le regole necessarie per una relazione fisica sana, in cui nessuno dei partecipanti si prende il peso dello scettro del potere. Ammettere che la donna sia semplicemente dotata di desideri, di preferenze sessuali e di una personalità non ne fa una meretrice, ma una persona alla pari.
E cade così anche il controllo dell’uomo sull’orgasmo della donna: si sente spessissimo dire che il godimento maschile sia una questione meccanica, mentre quello femminile una questione “di testa”. Anche qui, c’è un fraintendimento: il corpo della donna funziona esattamente come quello dell’uomo e affermare che per raggiungere l’orgasmo la donna debba essere necessariamente coinvolta sentimentalmente è sessista, perché riprende quelle convinzioni stantie secondo cui lei può provare piacere solo se innamorata. Volete un altro spoiler? La risposta è no, possiamo godere anche se non ce ne frega nulla del nostro partner.
L’orgasmo femminile non è uno scrigno delicato che va accarezzato, al quale bisogna sussurrare parole d’amore vagamente disneyane: la donna ha delle esigenze fisiche, egoistiche persino, e il sentimentalismo non c’entra proprio nulla. Con questo non voglio dire che fare l’amore e arrivare all’orgasmo con la persona amata sia una chimera, voglio solo far notare che si pone sempre il piacere dell’uno e dell’altro su due piani diversi, meccanico ed emotivo, deprivando la donna del semplice diletto di godere e basta, senza spiegazioni o inutili giustificazioni. E non è propriamente una questione di affronto sociale e culturale, ma di un retaggio secolare che non ammette lo shifting di potere dall’uomo alla donna, senza riuscire a capire che non si parla di litigio per la sua assegnazione, ma della sua condivisione equa. O, se vogliamo essere ancora più precisi, della sua espressione equa.
Una donna consapevole e sicura del proprio corpo e dei propri desideri non è una Medusa a cui tagliare la testa. Forse è una questione difficile da capire, soprattutto in una società che purtroppo è ancora così radicata nel machismo che vuole l’uomo gagliardo e fulcro unico del piacere della coppia, che mette nelle sue mani tutto il peso della soddisfazione carnale, perché se una donna non è soddisfatta, allora sicuramente sarà più propensa, per natura (vedi Eva nell’Eden) a tradire. Questo assunto secondo cui la donna sia congenitamente puttana ha stancato.
La jouissance femminile non è malcostume, ma semplicemente una presa di coscienza di se stesse, e posso capire che dia fastidio, ma è diventata una scusa talmente vecchia e avariata che non fa più neanche specie. L’insicurezza maschile sul tema non è un nostro problema, è un equivoco sociale che va sicuramente affrontato e discusso, liberandoci dal crimine atavico di essere colpevoli se esprimiamo desideri, voglia di mostrarci nude e di godere che nulla ha a che vedere con l’integrità morale.
Una donna che si spoglia, che mostra il proprio corpo, che sta bene nei propri panni non è meno donna o meno meritevole d’apprezzamento, e sicuramente non lo fa per un servizio collettivo e pubblico: può semplicemente farlo perché le va e questo non toglie nulla alla sua professionalità, alle sue competenze o alla sua intelligenza. Lo stesso discorso cade anche nella sfera del suo piacere fisico: bisogna scrollarsi di dosso il pensiero che il desiderio femminile sia peccato, mentre quello maschile sia bisogno fisiologico e per farlo è necessario parlarne fino alla nausea, a costo di diventare retoriche.
In questo, il libro Club Godo solleva la questione fondamentale del dialogo, della condivisione aperta, che si mette a servizio del livellamento dei desideri maschili e femminili, perché di questo si tratta: di identici modi di esprimere la propria sessualità.
