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Barbero: difetti strutturali di una società impari

Chiara Barbati di Chiara Barbati
23 Ottobre 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pena di chiedersi se ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È certamente da ammirare l’uomo saggio e osservatore che, pur di rendere pubbliche le sue illuminanti riflessioni, decide di rischiare la gogna mediatica dicendo una verità scomoda ma necessaria al progresso. Non è questo, tuttavia, il caso di Alessandro Barbero, che in un’intervista uscita su La Stampa ha goffamente ricercato le origini del divario di genere nella costituzione strutturale delle donne. Inutile dire che le polemiche sono esplose.

Lo studioso è stato intervistato in merito al suo recente ciclo di lezioni sulle figure femminili che hanno occupato ruoli di potere nel corso della storia, ma nel dibattito con la giornalista Silvia Francia qualcosa è andato storto. Maneggiando l’attualissimo tema del divario tra uomini e donne non solo nella detenzione del potere ma anche nell’accesso a cariche importanti, avanzamenti di carriera e alla parità salariale, Barbero ha ammesso che dati i cambiamenti rivoluzionari degli ultimi cinquant’anni, che hanno visto le donne diventare chirurghe e ingegnere – le uniche posizioni lavorative degne di nota nella narrazione ricorrente – pare sia proprio strano che la parità in ambito professionale sia ancora così lontana. Secondo lo storico, l’unica spiegazione, dunque, deve necessariamente essere un problema relativo alle inclinazioni, una differenza strutturale, fisica, endemica che impedisce alle donne di possedere gli aspetti caratteriali necessari per raggiungere il successo. Insomma, le donne sono biologicamente programmate per essere perdenti.

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Certamente, è molto più semplice dare alla biologia la colpa di un sistema sociale mondiale irrimediabilmente malsano e malato che relega le donne allo stato di inferiorità anche quando di parità ci si riempie sempre la bocca. Deve essere facile incolpare la genetica, quelle caratteristiche intrinseche dei cromosomi, poiché in questo modo ci si spoglia di qualunque responsabilità e non si è costretti a mettere in discussione un modello societario che, in fondo, agli uomini sta troppo comodo. Eppure, dietro una risposta tanto opportunistica – e furbacchiona – c’è molto di più della semplice deresponsabilizzazione della discriminazione di genere sistemica dall’eco di not all men.

Lo storico ha infatti aggiunto che è possibile che, in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi. E da questa maldestra ipotesi risultano molto evidenti tutti quei difetti strutturali della società su cui il sistema patriarcale poggia le proprie fondamenta. Prima di tutto, la domanda a cui Barbero rispondeva non faceva in alcun modo cenno al tema del successo, quanto invece si chiedeva come mai anche nella modernità alle donne manchino certi diritti fondamentali come le pari opportunità nella carriera. Ma il fatto che il riferimento della risposta si sia immediatamente spostato sulla retorica del successo è figlio di un sistema sociale capitalistico che basa la felicità esclusivamente nella ricerca di un’affermazione, che tradotta significa accumulamento di ricchezze, che tradotto a sua volta significa potere, cioè una connotazione tipica del più retrogrado concetto di virilità. Solo il vero uomo riesce a impugnare il potere ed esso è la stessa espressione di virilità che impone l’oppressione e la dominazione del prossimo. Mentre se le donne non raggiungono quella virile idea di successo è perché mancano di aggressività.

Ebbene, anche la retorica della violenza come unico mezzo per il successo è figlia del millenario sistema su cui ogni società umana si sia mai fondata. Se eserciti di uomini hanno conquistato le terre altrui distruggendo le vite degli abitanti per dominarle, se hanno utilizzato lo stupro come strumento non per il piacere sessuale ma per l’affermazione della virilità e se ancora oggi si nutrono di quella stessa narrazione vecchia di migliaia di anni, uno storico dovrebbe saperlo, o per lo meno fare due più due. Perché la retorica del successo ha viaggiato sempre sullo stesso binario della tossica e pericolosa narrazione secondo cui la violenza è l’unico strumento per ottenere il potere.

Ma, allora, alle donne mancano le caratteristiche strutturali per raggiungere il successo oppure l’idea di successo di cui ci nutriamo è irrimediabilmente cucita intorno alle caratteristiche non intrinseche degli uomini ma intrinseche della cultura con cui gli uomini sono ancora oggi cresciuti? Dopotutto, i messaggi di cui ogni giorno nutriamo e con cui cresciamo i nuovi individui sin da bambini, e l’impostazione sociale nella quale viviamo immersi, richiedono che le donne siano educate e non ambiziose e che gli uomini siano invece aggressivi e spavaldi. Ma non è l’inclinazione strutturale dei sessi a renderli tali, quanto l’ambiente circostante che li educa così. Allora, i principi secondo i quali una donna ha meno possibilità di fare carriera perché malauguratamente potrebbe decidere di fare dei figli sono gli stessi che le insegnano a stare composta e a non pretendere di superare professionalmente i suoi evidentemente superiori colleghi uomini. Ma non è la struttura, non è la biologia a sancirlo, è la società. La stessa che, semmai una donna dovesse mostrare qualcuna di quelle caratteristiche così tipicamente maschili, la bollerebbe come pazza, isterica e uterina. Tutti termini affibbiati a coloro che, per estrema trasgressione – magari perché volevano studiare o rifiutare un buon matrimonio – sono state rinchiuse con le più assurde diagnosi di infermità mentale.

E allora mi chiedo, caro Professor Barbero, se cento anni fa le nostre antenate venivano sbattute in manicomio solo per aver osato desiderare il successo professionale e veniva loro diagnosticato qualche disturbo psicologico dovuto a una repressione sessuale curabile attraverso vere e proprie violenze riabilitative, e se a noi oggi non viene in mente di essere aggressive e spavalde abbastanza da conquistarci una posizione di potere, non sarà per caso per questo, per una questione culturale, per il retaggio millenario che il nostro essere donne si porta dietro, invece di una differenza strutturale? Non sarà forse che i ruoli di genere che ci vengono insegnati sin da piccoli e le aspettative sociali che essi sottintendono precludano alle donne l’accesso al potere? Non sarà che non è un evidentemente inferiore cervello la nostra gabbia, ma la società che ci cresce e che è responsabilità di tutti?

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