Artemisia Gentileschi, la celebre artista del Seicento, questa settimana verrà rivelata di fronte a un pubblico ben diverso da quello di un museo: Artemisia, pièce teatrale scritta e diretta da Mirko Di Martino e interpretata di Titti Nuzzolese e Antonio D’Avino, è in scena al Teatro TRAM dal 9 al 19 marzo.
Lo scrivevamo qualche settimana fa: è impossibile non restare colpiti dalla storia di Artemisia. Una bambina che, innamoratasi dei pennelli e dei colori di suo padre Orazio, dimostrò un talento innato per la pittura. Una passione intesa, ma che la Artemisia ragazza poté coltivare solo di nascosto, celata tra le mura di casa, perché proibita alle donne.
Nonostante il divieto di dedicarsi all’arte imposto al genere femminile, la pittora riuscì ad aprire la sua bottega e ad affermarsi, diventando la prima donna a entrare a far parte dell’Accademia del Disegno. Particolarmente proficuo fu il soggiorno partenopeo della Gentileschi, rievocato da un’esposizione monografica allestita a Napoli da Gallerie d’Italia.
È in questa fase della vita della Gentileschi che comincia lo spettacolo prodotto dal Teatro dell’Osso. Siamo a Napoli, nel 1653, e Artemisia è ormai un’artista affermata. Le sue opere sono amate e desiderate da nobili e mecenati, la sua bottega è sulla bocca di tutti. I giorni in cui la Gentileschi doveva nascondersi per dipingere sono finiti.
Il passato, però, ritorna a galla. Artemisia si ritrova in casa un giudice che, senza alcuna spiegazione apparente, la obbliga a raccontare i particolari di una giornata che sperava di poter dimenticare. Infatti nel 1612, a Roma, la Gentileschi subì uno stupro da parte di Agostino Tassi, amico e collega di suo padre. Denunciò il fatto l’anno dopo, dando il via a una tra le più importanti causes célèbres del Seicento.
Abbiamo già raccontato come, durante il processo, la Gentileschi fu vittima di umiliazioni e crudeltà: a seguito di invasive visite ginecologiche si scoprì che la pittrice non era vergine e – perso lo status di donna pura e onesta – subì la tortura della Sibilla. Le vennero legate delle cordicelle attorno alle dita e tirate finché non avesse ammesso che l’accusa di stupro era in realtà una calunnia architettata per nascondere la sua promiscuità. Si chiama vittimizzazione secondaria, e accade ancora oggi: la tendenza a ribaltare la situazione e colpevolizzare la donna per lo stupro o la molestia subita. Dal non dovevi ubriacarti al perché ci sei andata, fino allo sguardo inquisitore sui vestiti o la condotta della vittima: chi denuncia subisce un processo alla sua moralità.
Il giudice apparso in casa di Artemisia la riporta lì, a quel giudizio, e man mano assume i ruoli delle figure maschili che hanno condizionato la sua vita: suo padre, il suo stupratore, ma anche un predicatore che, attraverso la rievocazione delle scene bibliche narrate nei dipinti di Artemisia, la obbliga confrontarsi con le sue paure, i suoi dubbi, i suoi desideri di gloria, di affermazione di sé come artista prima che come donna.
Non si tratta di un’opera biografica, ma simbolica, a metà tra il sogno e la realtà. Ma allo sguardo sul mondo interiore dell’artista – pieno di ambizione, senso di colpa, dubbi, ansie e paure – e sulle somiglianze tra il suo caso e quello di tante altre vittime d’abuso, si aggiunge una riflessione sul nostro sguardo nei confronti di Artemisia.
Io per prima, nell’approcciarmi alle opere della Gentileschi, le ho analizzate alla luce di quella giornata del 1612. In quelle eroine fiere e tormentate ho voluto rivedere la sua storia: il tema dello stupro in Corsica e il satiro, le calunnie e il processo in Susanna e i vecchioni, la ribellione e la vendetta verso il mondo maschile in Giuditta e Oloferne e, infine, il riscatto attraverso l’arte nel Trionfo di Galatea.
Ma si può davvero parlare di riscatto, se tutta la produzione artistica di Artemisia viene vista esclusivamente alla luce di quell’evento? La stessa arte in cui la Gentileschi vede la libertà e l’emancipazione diventa un modo per tutti noi di riportarla – e ridurla – a ciò che ha vissuto quel giorno, alla sua condizione di vittima prima che di artista.
La stessa esposizione monografica delle Gallerie d’Italia – in ogni caso meravigliosa – è incentrata sui rapporti di genere e induce a una lettura moderna e femminista delle iconografie della pittrice: la Gentileschi non riesce mai a liberarsi dallo spettro del suo passato e a essere considerata come un individuo separato dal suo trauma. Ma è davvero possibile operare questa cesura nella sua arte?
In scena, da quella giornata non si scappa: la pittora si accorge che tutta la sua vita e la sua stessa opera ne sono state segnate in profondità. Artemisia credeva di essere diventata libera grazie all’arte, adesso scopre che era la sua prigione – si legge tra le note di regia dello spettacolo.
Inutile pensare che la soluzione sia ignorare il passato della Gentileschi, chiudendo gli occhi sulle implicazioni della sua arte. Il teatro, in questo caso, serve proprio all’opposto: a comprendere anche questa sfumatura di Artemisia, il suo essere intrappolata in un eterno processo, e il suo desiderio di essere ricordata come artista, proponendo un nuovo modo di vedere una figura così complessa.
Lo spettacolo porta in scena una riflessione universale sul valore dell’arte, sul suo legame con la vita, sulla capacità dell’arte di sostituirsi ad essa. Artemisia sente di aver sacrificato tutto all’arte: giunta al termine della vita, è obbligata a chiedersi se ne sia valsa la pena.
