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Alla festa di Mrs Dalloway: “quell’attimo di giugno” (pt. 1)

Annarita Genova di Annarita Genova
26 Maggio 2023
in Lapis
Tempo di lettura: 5 minuti
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La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei: è uno degli incipit più popolari della letteratura che, racchiudendo in sé un pretesto per uscire di casa – andare a comprare i fiori – e praticare un’immersiva passeggiata londinese, dà avvio a un’opera che è essa stessa un’immensa flânerie per le strade di Londra e per i sentimenti umani, soprattutto quelli nascosti negli angoli più remoti dell’animo.

Il romanzo incomincia di buon mattino: la freschezza dell’aria porta la mente della signora Dalloway a un ricordo lontano, fresco come il bacio di un’onda. Torniamo, però, presto a Westminster, dove la protagonista vive ormai da più di vent’anni e, qui, sul marciapiedi, è investita dai rintocchi del Big Ben, che si dissolvono nell’aria come cerchi di piombo, preannunciati, poco prima, da una calma irreale.

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La signora Dalloway è subito pronta a immettersi nel traffico londinese e a osservare con attenzione, come in prima persona faceva l’autrice del romanzo che porta proprio il suo nome, Virginia Woolf, gli occhi e i comportamenti dei passanti, ora che ormai la guerra era finita:

Negli occhi della gente, nel loro andamento lento, faticoso, nel chiasso e nel frastuono, le carrozze, le automobili, i tram, i furgoni, gli uomini-sandwich che vanno avanti e indietro col loro passo strascicato e ondeggiante, le bande e gli organetti; nel trionfo e nel tripudio e nel canto stranamente acuto di un aereo, ciò che amava era: la vita, Londra, quell’attimo di giugno.

A scandire il ritmo della narrazione è L’Orologio, sua maestà, che sembra camuffare la sua faccia più sinistra e sanguinaria con una maschera urbana; ma questa presenza ossessiva, seppure non sempre manifesta, appare lo stesso minacciosa e dura come il piombo, da far venire la sensazione che qualcosa di tremendo possa succedere da un momento all’altro.

Insinuata nel sottostrato del romanzo, impregnata nel tessuto narrativo, la ritmica delle ore distribuisce il tempo della narrazione nell’arco di una giornata, da quando Dalloway esce di casa per attraversare Londra a quando la notte (e una notizia) porta a conclusione la festa che la donna si è preoccupata di organizzare per l’intero giorno e per la quale è uscita a comprare i fiori. Eppure, il tempo fa delle deviazioni continue, piantandosi in profondità tra un prima e un dopo – e un sogno – che il lettore ha l’impressione che esso a un certo punto si ritiri, si sospenda, ma è solo un’illusione perché il suo prossimo rintocco sarà ancora più destabilizzante.

A un tempo così cadenzato si accompagna quello spazio occupato dal flusso e il deflusso degli abitanti di una città che si distende sotto di loro come un mare: ogni cosa ritorna come un’onda e ogni persona ingloba nel suo passare le esperienze di tutti coloro che incontra, anche di sfuggita. Esiste, perciò, tra le strade un concatenarsi di esistenze di camminatori che non si urtano fisicamente, si passano solo accanto, ma entrano in contatto in una maniera intima, spirituale, da caricarsi addosso, pur solo per un attimo, la vita dell’altro.

Si tratta di un Altro che è seduto su una panchina o esce da un negozio, che la signora Dalloway conosce o che gli altri protagonisti, ai quali lei passa il comando del flusso di coscienza come fosse un registratore, non hanno mai visto prima ma di cui possono immaginare i pensieri. Porta, così, la sua onda (intesa come esistenza) sulla scena Peter Walsh, l’ex fidanzato della protagonista da lei rifiutato una vita fa, che torna dall’India come uno straniero, anche se straniero in patria lo è sempre stato.

E poi compare Septimus Warren Smith, che cammina al fianco della moglie italiana Rezia ma che, in realtà, non è lì al suo fianco, per quelle strade, bensì intrappolato in tremende allucinazioni nel bel mezzo di una passeggiata ai giardini, nella fantasticheria spaventosa che ha cominciato a comparire davanti ai suoi occhi quando è ritornato salvo dalla guerra, e che gli fa vedere le chiome degli alberi come piume sulle teste dei cavalli e il fantasma dell’amico morto durante il combattimento.

Amare rende soli, pensò. Questo pensiero è affidato a Rezia quando è il turno della sua coscienza a fluire nel romanzo, dettato dalla solitudine che si prova ad amare un uomo che è con la mente in un altro luogo. Un uomo che, a causa della guerra, non è più tornato da lei; è al suo fianco ma fuori di sé, in un fuori che nemmeno l’amore può raggiungere. Clarissa (è il nome della signora Dalloway) potrebbe però condividere questo stesso pensiero, farlo suo, quando si ferma a osservare il suo corpo, a sentirlo con tutte le proprie facoltà, ma le sembra che non valga nulla: Ebbe la curiosa impressione di essere invisibile; non vista; non conosciuta.

Viene allora da chiedersi: che cosa ama Clarissa da renderla sola? La signora Dalloway ha sposato un uomo ricco e cortese, Richard, non per passione ma per sentirsi al sicuro (nelle cui braccia poteva accoccolarsi come un uccello e pian piano riprendersi), perché lui riusciva a placare la tempesta del suo essere. Insieme hanno avuto una figlia, Elizabeth, di diciassette anni, più o meno gli stessi che aveva Clarissa quando amava Peter. Ma ancora non ci è chiaro: che cos’è che ha nel cuore l’austera Clarissa?

Peter! Peter! gridò Clarissa, e lo seguì sul pianerottolo. “La mia festa, stasera! Ricordati della festa di stasera!” gridò, alzando la voce per farsi sentire contro il frastuono che c’era fuori. Sopraffatta dal traffico e dal rumore di tutti gli orologi che battevano l’ora, la sua voce che urlava “Ricordati della festa di stasera!” risuonò fragile, esile e assai lontana agli orecchi di Peter Walsh che chiudeva la porta.

Questo “Ricorda!” è disseminato nella storia dalla signora Dalloway, quasi a voler ricordare a se stessa che cosa è che lei ama davvero: la vita, e più precisamente mettere insieme delle persone per una festa, selezionare una manciata di folla che di giorno si muove disordinata lì fuori, per strada, e riunirla qui nel suo salotto, per essere colei che permette l’irruzione dell’irrealtà nella realtà, perché la festa rende possibile ogni cosa.

Perché abbellirsi per una festa è un po’ come diventare simili agli dei (Byung-Chul Han, La società della stanchezza; Kerényi).

Prec.

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