Contributo a cura di Samantha O. Storchi.
Walter Benjamin fu un abile traduttore dell’opera di Marcel Proust. À la recherche du temps perdu ebbe una grande fortuna in Germania grazie anche al suo contributo. L’opera proustiana, infatti, ebbe una notevole influenza sul filosofo e adesso tenteremo di capire in che modo.
Ne Il tempo ritrovato, ultimo volume dell’opera proustiana, il protagonista spiega le ragioni che l’hanno indotto a scrivere. È a questo punto che il romanzo ritrova se stesso, la propria ragion d’essere, ed è questo passo che dobbiamo prendere in considerazione quando vogliamo comprendere l’ascendente che Proust ha esercitato su Benjamin. Leggiamo: “[…] pensavo in termini più modesti al mio libro […] a coloro che lo avrebbero letto […] ai miei lettori. Questi non sarebbero stati “miei lettori”, ma lettori di se stessi.” Benjamin si è forse riconosciuto come lettore di se stesso nell’approcciarsi all’opera di Proust? Il confronto tra l’Infanzia berlinese intorno al millenovecento e la Recherche ci permetterà di analizzare le analogie e le differenze tra i due autori.
Un insieme di piccole miniature forma la grande opera benjaminiana dedicata alla memoria. L’opera si configura come una strana autobiografia, una sorta di mosaico, in cui il filosofo raccoglie le proprie esperienze, resuscitandole e facendole rivivere nel presente. I vari brani appaiono come tanti quadretti, attraverso i quali Benjamin allestisce la mostra della sua infanzia. In questo modo, l’opera somiglia più a una sorta di mostra pittorica che a un’autobiografia, risultando composta da una sequenza di rappresentazioni che stimolano l’immaginazione, a sua volta coinvolta in un incessante processo di creazione di personaggi, situazioni e scene. L’autore scava nel proprio passato, torna a quando era bambino, un bambino ebreo nella Berlino dell’epoca. Nella capitale tedesca a cavallo tra due secoli, emerge l’ultimo riflesso di quel mondo borghese di cui anche il piccolo Benjamin fa indirettamente parte. L’opera offre così al lettore l’occasione di un tuffo nel passato di una città che in un vicino futuro sarebbe stata afflitta dalla guerra.
Quale importanza riveste l’opera di Marcel Proust per il Walter Benjamin autore dell’Infanzia berlinese? Senza dubbio, chi comincia a scrivere un’opera di questo genere è anche lui, come l’autore della Recherche, alla ricerca del tempo perduto. È rilevabile, d’altro canto, molto più di una semplice influenza, quasi una sorta di affinità elettiva. Un’analisi accurata, tuttavia, dimostra che tra le due opere c’è una differenza non solo di forma, ma anche di contenuto e l’intenzione stessa che anima i due autori è profondamente dissimile. La loro vicinanza sembra essere così soltanto apparente.
Nell’Infanzia berlinese si delinea un nuovo concetto di memoria: una memoria che è capace di salvare il passato. Salvare non significa dare ai problemi la loro risoluzione definitiva, bensì citare il passato, far riemergere ciò che in esso è stato sepolto. Il passato, rielaborato attraverso il ricordo, viene assunto in una modalità che permette di riconoscerci in esso. La memoria non è vista come organo di registrazione passiva, piuttosto come strumento prezioso per la decifrazione di simboli e allegorie. Si capisce allora che in Benjamin c’è un modo diverso di rapportarsi al passato. Fin dalle prime pagine dell’Infanzia berlinese, infatti, lo scrittore manifesta il bisogno di andare oltre il visibile. Attraverso il viaggio nella propria infanzia, apre gli occhi sulla società in cui essa è trascorsa, per capire come tutto sia cambiato, e nel passato riconosce i segni anticipatori, le tracce della sua vita futura. Si può affermare che Benjamin guardi al passato come a uno scrigno segreto all’interno del quale sono contenute tutte le anticipazioni del futuro che, però, solo un occhio attento è in grado di leggere. In tal modo, la nostra anima, insieme alle sue prime esperienze, contiene il programma della nostra vita. Per saperlo riconoscere occorre sapersi perdere nei ricordi, non per poterli ricostruire, ma per cercare in essi i segni dell’avvenire. Il ricordo per Benjamin anticipa il futuro e in questo senso l’opera è attraversata da un intento diverso da quello proustiano. Creando un senso adiacente rispetto al senso stabilito, il ricordo in Benjamin – a differenza di quello di Proust – rivela una potenza creativa perché dispone di una verità. Proust va alla ricerca del tempo perduto, invece, per sottrarsi alla coincidenza di passato e presente. Rifugiandosi nel tempo perduto, l’autore della Recherche si pone come obiettivo la perdita del tempo in quanto tale. Marcel cerca il passato per sottrarsi alla coincidenza di passato e presente e per sottrarsi, innanzitutto, al futuro, ai suoi pericoli e alle sue minacce, l’ultima delle quali è rappresentata dalla morte.
Si potrebbe sintetizzare dicendo che l’autore francese ascolti i suoni e gli odori che provengono dal passato, mentre il filosofo tedesco sia in cerca di suoni che anticipino un futuro divenuto esso stesso passato. Benjamin non vuole liberarsi dalla temporalità, Proust, invece, mira proprio a tale obiettivo. In questo diverso modo di esprimere il tempo si fonda la differenza formale tra le due opere, l’abisso che separa le tremila pagine della Recherche dalla raccolta di piccoli brani di Benjamin. Proust deve necessariamente raccontare tutta una vita perché è alla ricerca di quegli attimi in cui le esperienze infantili tornano alla luce. Benjamin, invece, può dedicarsi solo a quegli attimi dell’infanzia in cui è celato il sogno premonitore. Non si tratta, allora, di ricerca del tempo perduto, ma quasi di una ricerca del futuro perduto. Il cammino verso l’origine è, senza dubbio, un percorso a ritroso, a ritroso verso qualcosa di futuro.
Non bisogna lasciarsi ingannare da queste differenze perché, nonostante tutto, Benjamin non si è solo riconosciuto come lettore di se stesso nell’approcciarsi alla traduzione dell’opera di Proust: c’è molto di più. Marcel Proust, attraverso lo scavo nella propria infanzia, ha saputo astrarre momenti veri, autentici, e li ha dotati, così, di auraticità. È come se il soggetto lasciasse al passato la sua aura. Lasciar parlare il passato, relegato normalmente nella sua lontananza e inacessibilità, significa permettergli di parlare di sé stesso, far emergere il proprio carattere individuale, unico: la sua aura, appunto. È questo ciò che ha sapientemente colpito Walter Benjamin ed è questo che colpisce tutti noi, lettori della Recherche: spesso crediamo di aver dimenticato il passato e crediamo di averlo perduto per sempre, fin quando, inaspettatamente, un ricordo riappare…